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Da Pechino a Mùtianyù sono circa settanta chilometri. Della Grande Muraglia non so molto, sono in parte impreparato. Credo ne sappia come un cinese ne sa del Colosseo di Roma: un’opera dell’ingegno umano del passato da vedere assolutamente. So che si estende per migliaia di chilometri dal Liaoning nei pressi della Corea del Nord fino al deserto del Gobi. Fu costruita nel periodo dei Qin qualche secolo prima di Cristo e continuata nelle epoche successive con l’obiettivo di creare una barriera invalicabile per i popoli del nord. Era dalle steppe mongole e siberiane che la Cina subiva scorrerie e qui volle impedire l’accesso agli stranieri e difendere la capitale. Riuscì a penetrarla il leggendario Genghis Khan. E poi, in epoche più recenti gli europei la aggirarono arrivando in Cina dal mare e i giapponesi la scavalcarono del tutto con dei semplici aerei da guerra. Nel bus, la guida cinese che si autodefinisce Alex, ci fornisce informazioni storiche e suggerimenti comportamentali in un inglese incomprensibile persino agli stessi inglesi.

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Lassù, sul cocuzzolo delle montagne si intravedono le prime torrette. È appena sceso dal bus che mi sento un viaggiatore solo, nel senso proprio di persona che è senza compagnia di alcuno, che non ha nessun altro insieme o vicino. Questione di condivisione o di voler condividere qualcosa, ecco. Mùtianyù è una parte della Grande Muraglia ristrutturata nel 1986, leggo in un opuscolo che prendo alla biglietteria. Questo tratto di muro risale al 550 e fu costruito dalla dinastia Qi del Nord. Fu ricostruito durante la Dinastia Ming sotto la supervisione di quello che dovrebbe essere il famoso generale Xu Da. È un tratto di due chilometri e mezzo di lunghezza, otto metri di altezza e quattro o cinque metri di larghezza. Conta 23 torri di avvistamento dei nemici, nei pressi della più a ovest delle quali c’è una scritta di ben duecento metri che dice Loyalty to Chairman Mao. Proprio lo stesso Mao che una volta disse: “Se non vai alla Grande Muraglia non sei un brav’uomo”. Anche Clinton è stato qui, c’è scritto sull’opuscolo. E per salire su, ha preso proprio la funivia che sto per prendere io. Funivia che mi porta alla torre numero 14 dalla quale, camminando fino alla 23, si possono ammirare i paesaggi più belli della Grande Muraglia.

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Dalla base della torre vedo questa linea ondulata puntellata da torrette che solca le montagne attorno ai mille metri. E il bosco caduco e innevato su entrambi i lati. Un tempo, al di là di questo muro doveva essere già territorio straniero. Il primo passo sulla muraglia mi fa tornare subito alle contingenze della vita materiale: il fondo è scivoloso, ecco perchè Alex aveva insistito tanto con quel suo be carefull una volta che siete lassù. Il percorso tra una torre e l’altra è in parte a gradini, in parte liscio, dipende dalla pendenza. Laddove ci sono i gradini è relativamente facile, il problema nasce laddove non ce ne sono perchè è come un unico piano di lastra di ghiaccio in declivio. Si va piano.

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È gigantesca questa muraglia, l’orizzonte spazia fino ad infrangersi sulle montagne. Il parapetto merlato ha delle caditoie dalla quali i soldati potevano lanciare frecce ai nemici che cercavano di avvicinarsi dal bosco. Mi aggrappo alle merlature per non cadere, per evitare di scivolare faccio tanta fatica fisica. La numero 23 è la, in alto laggiù, con una piccola bandiera della Cina ed è lì che devo arrivare. Dalla numero 20 alla numero 23 il gioco si fa duro, è tutta una ripida salita di ghiaccio. Mi aggrego a distanza a una coppia con figlia, credo americani. Facciamo assieme tutto il percorso fino alla penultima torretta, è pur sempre una sorta di compagnia. Ci fermiamo ad ogni torretta e sbirciamo fuori dalle grandi fessure a mo di finestre con vista sul nemico. Non ci parliamo mai, ma abbiamo lo stesso passo. Incrociamo lo sguardo un paio di volte e sorridiamo gli uni verso l’altro. Indossano dei giubbotti da neve della North Face e dei grandi scarponi come i miei, sono senz’altro degli sportivi. I tedeschi sono più veloci, altri ci passano avanti a passo spedito, una coppia di spagnoli e un’altra di argentini le perdiamo alle nostre spalle. La Grande Muraglia in questo periodo è priva della massa di turisti che di solito la frequenta e ciò mi permette di assaporarla al meglio. L’ultimo tratto è quello più impegnativo, qui ognuno per sé. Sono centinaia di gradini che al posto degli stessi hanno i soliti lastroni di ghiaccio con su uno strato sottile di neve fresca. Ci impiego un bel po’ per individuare una modalità di salita serena, eccone una: salgo dal bordo destro di questa ampia scalinata con accanto il parapetto e appoggio dapprima il piede sinistro in maniera obliqua conficcandolo con forza tra la neve in superficie, stabilizzo il corpo e appoggio il piede destro sullo stesso gradino.
Così, per centinaia di gradini.

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Avanzo piano, ogni tanto cedo il passo ai più veloci. Durante tutta la salita le mie energie sono concentrate interamente a salire. E a non cadere. Ogni tanto, però, alzo lo sguardo per dare un’occhiata alla bandiera cinese sull’ultima torretta che sto per conquistare. Non è qualcosa tipo fare le scale, è più qualcosa tipo da arrampicata. Di fronte ho l’ultima dozzina di gradini che più che gradini sono un parete di ghiaccio. Ed è qui che desisto.

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Vedo la bandiera cinese là in alto a me, non la conquisterò mai così come mai vedrò il panorama dalla numero 23. Mi fermo appena sotto, dopotutto anche da qui l’immensa Grande Muraglia non è male, anzi, è proprio un paesaggio romantico e carico di poesia. Come facevano i soldati cinesi a difendere il muro con tutto questo freddo (siamo a -7 gradi)? Come facevano a correre su questi lastroni di ghiaccio? Come hanno fatto a costruire una barriera del genere in mezzo alla foresta? Sono accalorato, sudo e dalla mia testa vedo che vien fuori il vapore. Ci sono meno dieci gradi qui ed è tempo di ritornare al campo base. È la prima volta che una discesa mi riesce più difficile della salita, è tutto uno scivolio, un aggrapparmi al parapetto, un rafforzare i polpacci, un trovare la via stabile, un avanzare bradipo. Un cadere per terra una volta, anche. Ho fatto bene a non salire su per la cima, mi dico. Sarei caduto e mi sono fermato a pochi passi dalla conquista della bandiera cinese proprio per evitare la caduta. Sì, sarei caduto senz’altro. Quando si viaggia da soli poi, bisogna conoscersi per bene, per non fare fesserie. E’ un po’ una questione di comprendere alcuni dei propri limiti, nel mio caso dei miei limiti fisici. Lì sopra mi sono fermato anche per una mia rimembranza di quando caddi per terra di osso sacro, poco più che ventenne. Me lo ricordo ancora quel dolore e me lo ricordo proprio adesso.
Chicche mentali da Grande Muraglia.

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E tutto questo mentre scendo giù sforzando il mio ginocchio sinistro, quello al quale ho una lieve lesione meniscale causata da partite di pallone in mezzo alla strada. Mi duole tantissimo. Un passettino alla volta ritorno indietro, mi convinco che la Grande Muraglia sia più facile da scavalcare che da camminarci su. Rivedo qualche viaggiatore del bus e con qualcuno instauro una certa familiarità a distanza. Il ritorno a valle in funivia me lo faccio da solo, dalla cabina lo sguardo va lontano nel paesaggio in bianco e nero.

Al rientro in hotel, Mei mi chiede come è stata l’esperienza della Grande Muraglia.

“It was great”, le dico stanco morto e via subito in camera da letto.