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La prima volta che ho mangiato in Cina ha rafforzato in me il concetto dell’importanza della comunicazione linguistica. E, in mancanza di questa, dello smartphone contemporaneo. Ho una fame tremenda, i pasti di Aeroflot (foto seguente), la compagnia aerea che mi ha portato a Pechino, non hanno fatto centro, ho lasciato da parte quasi tutto e sono rimasto vuoto. Il budget hotel nel quale alloggio ha solo qualcosa per la colazione, ma io ho bisogno di un pasto più sostanzioso. Esco che fa un freddo cane, ho l’unico obiettivo di trovare del cibo. Di solito, la prima cosa che faccio quando arrivo in un posto, è fare una passeggiata nei dintorni per prendere le misure alla zona e trovare da mangiare è una buona occasione.

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Sotto il gelo pechinese del quartiere Xicheng cammino affamato, da isolato a isolato. In una stradina popolata di insegne, entro in un fruttivendolo con la speranza offra anche qualcos’altro, tipo pane. Il gestore è giovane, avrà la mia età. Mimo lui il gesto del mangiare non considerando il fatto che tale gesto possa significare nulla o altro per un cinese. Parlo comunque all’uomo tentando di far capire lui che cerco di mangiare non frutta, ma qualcosa di più. Lui sorride, non capisce l’inglese, è un sorriso timido, di timidezza col capo chino. Dalla vetrata del suo negozio sono visibili ben quattro posti dove mangiare, tipo tavernette e botteghe. Mi sforzo di fargli capire che mi paicerebbe mi consigliasse il suo posto preferito.

“Quale? Dove andresti a mangiare tu?”, chiedo in italiano, indicando con la mano la zona di riferimento nel nostro campo visivo. Lui mi indica le banane in uno scaffale all’interno della visuale verso cui è rivolto il nostro sguardo.
“Ma sì, dammi due banane và!”, gli rispondo mentre il mio stomaco emette striduli di quasi dolore.

Pago e mangio una banana strada facendo, coi guanti.  Sceglierò io uno di quei posti, in base alla mia sensazione personale. Hanno tutti delle grandi insegne luminose in caratteri ideogrammi, brillano da lontano come fossero sale da gioco anni ’80. Sono locali piccolini che si sviluppano in maniera rettangolare con pochi posti a sedere. Uno di essi ha una brace per l’arrosto direttamente sulla strada, l’odore di carne arrosto si espande a perdita di naso. Tuttavia, l’occhio mi cade su un localino che sembra tenuto meglio, sedute a mangiare ci sono quattro persone. Una volta dentro, percepisco subito la differenza di temperatura più calda rispetto al gelo polare dell’esterno. Senza dire nulla, una ragazza mi invita a sedere, prego, non parla inglese. Mi presenta un menù illustrato con foto di pietanze e scritte in cinese e io, nonostante veda le immagini che rappresentano i piatti proposti, non ci capisco granchè. Ma la ragazza è perspicace, molto più di me. Faccio per indicare un piatto e, prima ancora di chiedere informazioni, lei ha già tradotto dal mandarino all’inglese sul suo telefonino.

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Senza portarla alla lunga con i convenevoli, mi va bene già la prima scelta: pollo kung pao, un piatto pieno di pollo tagliato a pezzi piuttosto piccoli insieme a peperoni, zenzero e arachidi condito con una salsa piccante e leggermente agrodolce. I quattro avventori sono silenti, la ragazza è silente, c’è un uomo seduto in fondo alla cassa, silente anch’esso e nessuna musica di sottofondo. La ragazza mi porta il piatto col pollo kung pao, servito con a parte una coppetta di riso bollito. Gradirei una forchetta, non ho tempo ne voglia di impare e immergermi nella cultura altrui, sono semplicemente stanco e affamato. Sul traduttore dello smartphone della ragazza scrivo fork e no, non ce l’hanno. La soluzione mi viene indicata nel cucchiaio cinese con funzione di coppetta che mi è stato già portato. Dietro, in cucina, sento una risata fragorosa, staranno senz’altro ridendo dello straniero che non riesce a mangiare con le bacchette e che per mangiare il pollo kung pao utilizza il cucchiaio del riso!

Mangio, gli unici rumori che sento sono gli sporadici risucchi dei commensali che mi osservano di tanto in tanto compassionevoli e per tre volte un lamento di un bambino. Sarà una specie di trattoria a conduzione familiare, sì: la mamma in cucina, il papà alla cassa, la figlia ai tavoli per gli ospiti. Sento il lamento per la quarta volta, questa volta mi sembra più vicino, sembra sia entrato nella saletta dove stiamo mangiando. Effettivamente, non mi pare sia un suono emesso da un bimbo. È un gatto! Un bel gatto dalle sembianze cinesi anch’esso, che salta da un tavolo all’altro e supplica cibo alla gatto maniera. La cuoca sbuca dal retro, lo prende con sè e lo getta via da una porta secondaria. Non batte ciglio nessuno, tutti intenti al loro pasto. Io, ho già mangiato tutto, velocemente. Può bastare così.