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Pechino non mi fa una grande impressione, no. Ci arrivo una mattina di fine novembre, alle nove e mezza, c’è neve dappertutto e fa freddo. Nella mia mente sovviene subito la sensazione che io abbia sbagliato a venire qui in questo periodo dell’anno, sarei dovuto venire un paio di settimane prima, non sono certo abituato a questi regimi climatici. In aeroporto, eseguo il solito rito delle pratiche di controllo per i cittadini esteri, ho solo un leggero contrattempo durante il controllo del passaporto e del visto. La fotografia del mio passaporto, infatti, risale a nove anni fa quando ero più ragazzino e dall’aspetto più mediorentale dell’attuale e ciò fa nascere una conversazione animata tra il personale addetto al controllo. Non capisco nulla di quello che si dicono, ma intendo sicuramente parlare di me e del fatto se io sia o meno quello in foto. Dalle grandi vetrate dell’aeroporto, vedo la bufera di neve che imperversa la fuori dove mi attende una mezza dozzina di falsi tassisti che subito attorniano la preda forestiera.
“Taxi per la città, 500 yuan” – mi dice un tipo avvicinandosi e prendendomi per il braccio.

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È il mio primo viaggio in solitaria in un mondo così lontano, un viaggio non molto programmato perché desidero viaggiare un po’ troppo alla scoperta. Essendo solo, sono doppiamente vigile e mi informo dapprima alla ragazza del cambio valute quanto possa costare indicativamente una corsa dall’aeroporto al centro della città nei pressi della Città Proibita. La ragazza mi comunica che di solito bastano 180 yuan, massimo 200, e così a tutti i falsi tassisti alla ricerca del cliente da fottere rifilo un bel no. La fuori, mi metto in fila nella piazzola sosta dei taxi legali, attendo una ventina di minuti al freddo gelido, un freddo che secondo me proviene sicuramente dalla Mongolia Interna.
“Do you speak english?”, chiedo al tassista.
Lui rimane in auto mentre io carico il mio trolley nel bagagliaio e mi siedo davanti, alla sua destra. Mi risponde di no, ma non con un no sillabato, bensì con un grugnito, un sorriso e movimenti facciali come per dire: “ma stai scherzando? Oh, ti pare che io possa parlare inglese?”.

Inizia proprio in questo preciso momento il mio travaglio comunicativo in Cina, un paese dove nessuno parla inglese e nel quale io sono arrivato convinto che anche qui gli esseri umani locali avessero adottato tale lingua come lingua franca o linguaggio universale. Così, il mio tassista mi deve accompagnare in un hotel nei pressi del Tempio del Paradiso, ma non possiamo comunicare l’un l’altro. Con me ho la stampa della prenotazione alberghiera in lingua cinese e inglese, da questo punto di vista quelli di Booking.com la sanno lunga. La mostro al tassista il quale mi comunica che più o meno ha capito la destinazione.

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Il paesaggio di Pechino comincia a mostrarsi dapprima su strade a tre corsie che poi diventano quattro per ogni senso di marcia. Nevica, a terra c’è nevischio misto con terriccio. Si va piano per via delle condizioni climatiche non per il traffico, me lo aspettavo decisamente peggio quest’ultimo. Il paesaggio mi scorre da una vecchia Hyundai, c’è il riscaldamento a palla ma da più di qualche spiffero entra dentro il freddo. Nessuna radio accesa, nessuno scambio di parole a fare compagnia ai palazzi, palazzoni, palazzine che scorrono accanto. Edifici detestabili, in parte come i block buildings che ho visto a San Pietroburgo qualche anno fa nella madre Russia, in parte differenti. Se quelli russi avevano almeno un’anima sovietica, qui sono costruzioni recenti senz’anima, di una freddezza ghiacciante. Sono edifici spersonificati per non persone, non può essere altrimenti. Minuti di silenzio col tassista, poi mi accorgo di non aver messo la cintura e faccio per metterla.
“No”, mi dice il tassista giusto con lo scuotimento della testa e un sorriso come per dire: “Ma scherzi, la cintura? Come on!”.
Non la metto, sorrido anch’io.

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La città, col passare dei minuti si fa più grande e io comincio a notare cose più familiari. Non che conosca chissà che di Pechino, ma qualche nome l’ho letto e qualche foto l’ho vista. Ad esempio, vedo il grattacielo che io chiamo a U, che tante volte appare nelle fotografie dello skyline cittadino: un enorme edificio composto da due L rovesciate, sede della CCTV – China Central Television. Poi, leggo un cartello stradale con la scritta Tian An Men Sq, per lo meno i grandi segnali stradali sono bilingue. Nella mia lingua madre domando al tassista se siamo sulla strada giusta e lui mi garantisce che sì, siamo sulla retta via, anche se è un più o meno gestuale. Poco più in là, un cartello sul quale leggo Temple of Heaven Park, dovremmo esserci, il mio hotel è proprio nei suoi pressi in Xin nang street. Giriamo, rigiriamo, giriamo, me ne accorgo dal fatto che percorriamo le stesse strade più volte in sensi di marcia opposti. Non ci siamo, no. Il tassista ha il cellulare attaccato sul cruscotto, riceve una telefonata e mette il vivavoce. Se c’è un vantaggio di non comprendersi l’un l’altro è proprio quello di concedersi di parlare in vivavoce di fatti personali in presenza di uno sconosciuto. Dall’altro capo del telefono è una voce di donna anziana, quella che io immagino essere la moglie.

È qui che mi introduco alla lingua cinese, mi dimentico di quanto sia in balia della fortuna e mi immergo nell’ascolto del suo suono a occhi chiusi. Un suono duro, a volte con delle espressioni canine e diverse vocali intercalari o esclamative ricorrenti, a tratti è come se capissi qualche parola del mio dialetto natio per via dell’utilizzo della vocale u. Quasi vorrei chiamare a casa mia e parlare in dialetto con la mia mamma, vorrei proprio vedere la tua faccia, tassista! E’ impaziente, tronca la conversazione con la donna, digita dei numeri e mette nuovamente in vivavoce. Gli risponde un tipo, si parlano per un altro quarto d’ora e anche io intervengo nella conversazione parlando in lingua italiana: abbiamo tutti lo stesso obiettivo, Xin nang street. Giriamo intorno alle stesse vie, le macchine dietro ci frastornano di clacson, procediamo a passo d’uomo. Gira anche il tassametro e io ho programmato un viaggio abbastanza low cost. Sulla stampa della prenotazione alberghiera c’è anche una mappa, gliela rifaccio vedere indicandogli qualche via nei dintorni di Xin nang street cercando di ampliare il nostro raggio di ricerca.
“Beiwei”, gli dico io indicandogli la via che interseca Xin nang e mimandogli l’incrocio con un gesto delle mani.

Alla vista del gesto e all’udire le parole magiche Beiwei e Xin nang, gli occhi del tassista si illuminano, la telefonata col tipo viene chiusa e nel volgere di qualche angolo di strada ecco la nostra meta ed ecco il JR Brown Hotel. Il mio sguardo cade subito sul tassametro che segnala la sua presenza con 143 yuan che pago chiedendo uno sconto per il tempo perduto a zonzo. Il tassista mi fa capire che non ha resto, va bene così.
“Ok”, mi dice sorridendo gentilmente.
Ok lo sanno dire in tutto il mondo.